Sono provinciale.
Non amo Napoli.
Mi lamento solamente.
Grosso modo questo è il quadro scaturito dal dibattito a cui ho (incautamente) partecipato in questo giorni sulla manifestazione di Dolce&Gabbana a Napoli.
Terreno scivoloso. Presenza di tifoserie. Avere un'idea sulla questione che non sia bianca o nera, ti mette comunque su un piano inclinato che a seconda dell'interlocutore ti porta ad essere assimilato con una delle due fazioni in gioco.
Io volevo scrivere un post molto più utile con le indicazioni per affrontare il percorso per la Baia di Jeranto, però voglio cristallizzare il mio pensiero qui, che poi magari mi rincojonisco.
Utilizzare Napoli, anzi, utilizzare il suo centro storico come scenografia per la campagna pubblicitaria della nuova linea di abbigliamento, scegliere Napoli come location per festeggiare l'anniversario di una delle case di moda più note del mondo, va benissimo.
Grosso modo l'uso che si sta facendo della città non è molto diverso da quello che ne avrebbe fatto un regista chiedendo l'autorizzazione a girare scene del suo film tra i vicoli del centro di Napoli.
Il risultato è anche bello. Dolce&Gabbana hanno tra l'altro pagato per il disturbo versando bei soldoni nella asciutte casse comunali (al netto del regalino sulla tassa Cosap).
Ma non è questo il punto. Proprio perché abbiamo orgoglio (perché ne abbiamo ancora, vero?) non possiamo fermare il tutto alla lauta mancia o al "ritorno di immagine" (poi qualcuno un giorno mi farà un calcolo?).
Il mio disappunto è per il tipo di narrazione proposta. Perché se è vero che D&G ci porteranno al centro del mondo, ci stiamo chiedendo anche "come" ci porteranno?
A me pare che la sceneggiatura ideata da Dolce&Gabbana sia essenzialmente il contrasto tra il "Glamour" (cacchio quanto mi fa rissa questa parola) e la decadenza/povertà del vicolo napoletano puntando un carico da cento sul più stantio dei folklorismi e luoghi comuni del nostro territorio.
Tutto bene? E' questa la nostra Napoli nel 2016?
Credo che questa rappresentazione abbia spazzato in un sol colpo quell'opera "enorme" fatta agli albori degli anni 80 da chi cercava di scrollare da dosso ai napoletani quella patina di "pizza, spaghetti, sole e mandolino".
- "Voi siete napoletano?"
- "Sì, ma non emigrante, eh! No, no, pecché ccà pare ca 'o napulitano nun po' viaggia', po' sulamente emigra'".
Questo era Massimo Troisi (dal film "Ricomincio da tre") che aveva un'idea di Napoli e della "napoletanità" molto più evoluta.
Ma non solo lui.
[...] E' il medesimo meccanismo che sollecita molti autori a scrivere su Napoli film o commedie che travisano il significato della napoletanità e portano in giro aspetti falsi o inesistenti, o forzati e caricaturali della vita dei napoletani. E il bello è che qualcuno, facendo questo, si è pure fatto i soldi.
Attori, cantanti, registi, scrittori: un piccolo esercito di persone che sfruttano quella che definiscono la "cultura" di Napoli e che invece altro non è che folklore, o peggio folklorismo... [...]
Chi scrive qui è invece Pino Daniele ("Storie e poesie di un mascalzone latino", 1994, Pironti).
Insomma, a me pare che in questi ultimi anni le uniche narrazioni di Napoli che abbiamo da spenderci fuori dalle mura siano due: quella di Tom&Gerry e del Topolino napoletano o quella della Serie TV Gomorra. "Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere".
Poi c'è chi, nella sua bravura e genialità, con fare sornione riesce in poche righe (non come il sottoscritto) a sintetizzare mirabilmente il tutto. Grazie Maestro.
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